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giovedì 20 febbraio 2025

Rubrica: Coffee&Ciak - A Complete Unknown (a cura di Ms Rosewater)

Buongiorno lettor*! ^^
Oggi la nostra MsRosewater ha deciso di riesumare la rubrica Coffee&Ciak, dedicata a film e serie tv, per parlarci di A Complete Unknown, film biografia su Bob Dylan, del regista James Mangold, interpretato da Timothée Chalamet. Il film è uscito nelle sale il 23 gennaio, qualcuno ne ha parlato benissimo, qualcun altro malissimo. Scoprite l'opinione di Ms Rosewater che, ve lo dico da subito, è una grande fan di Bob Dylan. Avrà apprezzato A Complete Unknown? 
E a voi è piaciuto? Fatecelo sapere nei commenti! ;)

A Complete Unknown
di James Mangold, con Timothée Chalamet


Quando ho scoperto Bob Dylan ascoltavo continuamente le cassette dei suoi album mentre leggevo la storica biografia di Antony Scaduto e guardavo (e riguardavo) Don't Look Back, il documentario di D.A. Pennebaker sulla tournée londinese di Bob Dylan e Joan Baez del 1965. Devo aver consumato la videocassetta presa in prestito in biblioteca, osservavo ogni mossa, ogni atteggiamento, ogni posa del giovane Bob fino a che mi accorsi che cominciavo a sorridere e ad atteggiare le mani come lui.

Ecco, Timothée Chalamet deve aver fatto più o meno la stessa cosa, solo di più, molto di più. Troppo, quasi. Ce l'ha messa veramente tutta per diventare Bob Dylan, e per chi conosce abbastanza l'iconografia dylaniana è facile ritrovare i singoli riferimenti fotografici e sonori (i dialoghi in studio sono assolutamente simili ad alcuni che si trovano nei dischi), le unghie lunghe e la camicia a pois che sfoggia in alcune foto, è tutto noto. È quasi disturbante guardarlo in certe inquadrature e ascoltare la voce schiacciata e stridulina perfettamente simile a quella di Bob; quando si toglie gli occhiali da sole ti aspetti di vedere Dylan, ma, ahimé, è Chalamet.

Bisogna ammetterlo, si è veramente impegnato, ma il risultato per quanto curato è puramente estetico: se quando entriamo in sala non sappiamo nulla di Dylan e della sua musica, altrettanto ignoranti ne usciamo. Certo, il nostro eroe non ha mai amato rendere noti i suoi stati d'animo, ma - come ci aveva dimostrato I'm not there - ci sono molti modi per raccontare Dylan: attraverso le canzoni, i testi fantasmagorici, cornucopie di immagini che hanno ribaltato il mondo, Maggie, Queen Jane, i personaggi che vivono in Desolation Row, le metafore, i riferimenti letterari e linguistici sempre abbondanti, soprattutto nei primi dischi (anche quelli folk). Materia ricchissima per tracciare un ritratto in sospeso tra il poco che è dato sapere e il tanto che possiamo ascoltare. Invece tutta la pellicola resta su un piano didascalico, le canzoni sono appena accennate, arrivano a sottolineare un momento in cui Bob seduce Joan Baez o in cui una piagnucolosa Suze Rotolo (che non viene mai chiamata col suo vero nome, immagino per volontà degli eredi) si rende conto che la storia col menestrello di Duluth è finita. Il mistero dunque non sarà svelato, dentro al guscio non c'è alcun pulcino.

Tutto il film è costruito su questa vuota mimesi, non c'è climax e anticlimax, l'eccitazione, l'elettricità di quel periodo così eccezionale, non solo per la musica ma anche per il mondo, la politica, non si percepisce. Non c'è nessuna urgenza di scrivere canzoni e le relazioni romantiche del nostro sono rappresentate in modo superficiale: lui si aggira con un'espressione da giovane zombie e fa soffrire Joan Baez e Suze Rotolo, ma non c'è fuoco, no, no. Come può un personaggio del genere aver scritto Girl from the North Country o Farewell Angelina o It Ain't Me Babe? Qualcosa non torna. Come non torna l'assoluta mancanza di “vizio”: Dylan/Chalamet vive in un Village degli anni 60 più virtuoso di Disneyland, senza droghe e senza alcol; fuma parecchio, ma solo sigarette col filtro giallo e non beve, giusto un sorso di vino. Solo un musicista nero si permette in una delle scene più divertenti del film (e non sono molte) di bere alcol e dichiarare di apprezzarlo, i bianchi tutti santi.

Ci sono però omissioni più gravi. Mi riferisco alle personalità di Pete Seeger - quello sì splendidamente interpretato da Edward Norton, tanto spontaneo quanto rigido e artificioso è Chalamet- e Woody Guthrie, il grande eroe del giovanissimo Bob. Il primo è dipinto come un hippie ante-litteram, un caro vecchietto che scopre per primo il grande talento di Bobby Zimmerman, ma di cui vengono taciuti gli enormi meriti musicali e di lotta per i diritti civili, riducendolo a un cantante tradizionale che anima innocui programmi televisivi per famiglie.
Peggio ancora va a Guthrie, il motore immobile di tutto il primo periodo della carriera di Bob Dylan, ricoverato in ospedale, praticamente incapace di parlare, ma del quale davvero non sappiamo niente, nonostante la pellicola si apra proprio con Bob che si fa un viaggio dal Minnesota a New York per andarlo a trovare.

Nonostante ciò il regista ha comunque cura di mostrarci in una scena la sua chitarra, che riporta la storica frase “This guitar kills fascists”, così che CHI SA possa uggiolare nel riconoscerla. Ecco, alla fine è questa la furbata, fare un film non per ispirare i giovani con la seppur inquietante interpretazione di Chalamet, ma solleticare i ricordi di noi dinosauri, noi che l'elettricità l'avremmo sentita in ogni caso perché quella storia la conosciamo bene e possiamo aggiungervi i pezzi mancanti.

Mi sento di promuovere la scelta dei brani che compaiono nel film, si tratta soprattutto dei classiconi che lo resero famoso (Hard Rain, Blowin in the wind...), ma ci sono anche canzoni meno note e altrettanto belle, Girl from the North Country, Farewell Angelina e soprattutto Masters of war. Sono versi che risuonano ancora oggi, sottolineando un altro momento drammatico dell'umanità dopo la Guerra Fredda.
Il racconto di Bob Dylan però merita di più: creatività, follia, sorpresa, surrealtà, merita imprevedibilità e cattiveria, perché è questo, da sempre.

Se amate Bob Dylan vi sconsiglio caldamente la visione e se non lo conoscete, idem. 

Ms Rosewater



Fonte immagini: Google Immagini

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